music
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Cesare Basile. Il menestrello punk che scrive canzoni d'amore e tempesta. /
Mister Tambourine e il sogno che non finisce mai /
da il manifesto, 3.1.2017
Nella notte C'mon Tigre racconta Toccafondo /
da il manifesto, sabato 3 dicembre 2016
Ho sognato Bob Dylan e Neil Young... /
Ho sognato Bob Dylan. Bob mi chiedeva la mail, gliela scrivevo nel retro di un flayer del suo concerto ma non si scriveva, non riuscivo a scriverla, provavo a scrivere ma le lettere non si componevano. Poi mi giro e c'era anche Neil Young. Io dico nooo, Neil, anche tu qui... Poi è suonata la sveglia...
Dice che Bill Fay... /
Dice che Bill Fay tutti pensavano che fosse morto, e invece era solo scomparso. Ma non ha mai smesso di comporre.
Dice che le sue ultime canzoni inedite risalgono a più di quarant’anni fa (due dischi per la gloriosa Decca registrati in studio in tre giorni tra il ’67 e il ’71), e che ora esce il nuovo, bellissimo capolavoro, “Life is people” per la misconosciuta Dead Oceans di Nevada City, Indiana.
Dice che il giovane produttore Joshua Henry, cresciuto con i due vinili di Fay ereditati dal padre, sia volato dall’America al nord di Londra a cercare il “fantasma” di Bill, che nel frattempo campava con lavoretti occasionali come giardiniere, raccoglitore di frutta, uomo delle pulizie e addetto al bancone del pesce dei magazzini Selfridges, ma dice che in tutti questi anni la sua musica era arrivata lo stesso al cuore della gente.
Jeff Tweedy dei Wilco ha spesso suonato dal vivo la sua “Be not sofearful”, i Current 93 di David Tibet “Time of the last persecution”, Nick Cave lo venera, e Jim O’Rourke lo descrive così: “for some this may be a return to celebrate, for others it may be the beginning, but Bill Fay has quel held his head high above the fray of chaos for years with the beauty of his music and the power of his spirit”.
Dice che il trentaduenne discografico abbia convinto il vecchio Bill a tornare in sala di incisione, riprendendo alcuni suoi demo inclusi nel doppio disco postumo “Still some light” a due condizioni: che a suonare con lui ci fossero i vecchi amici di sempre (Ray Russell, Alan Rushton e Daryl Runswick), e che la sua parte di proventi andasse a Medici Senza Frontiere. Dice che quando è entrato in studio, dopo una vita, si è sentito a casa: “I was walking into the unknown, but everything kind of fell into place”.
Anima urbana ma dal cuore verde, Fay racconta la solitudine e l’emarginazione, ma nell’iniziale “There Is A Valley” anche gli alberi, e il potere salvifico della redenzione con una poetica enigmatica degna del migliore Dylan: “Trees don’t speak, but they speak to each other of a people long ago”. E dice che è nella ballata rock “This world” che si compie il miracolo del duetto tra Bill e Jeff Tweedy, che canta una delle strofe più belle e, probabilmente, più vere:
This world’s got me on my knees
There was a time when I used to stand tall
Too many years in the factories
Scrubbing floors and walls
“Life is people” è un disco semplice, quieto, pacificato, ("Be at peace with yourself”), che mescola il blues dell’anima alla commovente ballata per piano, voce e cello “The Never Ending Happening”, il romanticismo mai stucchevole al rock filosofico.
Dice che le canzoni di Bill Fay non si possono spiegare. Se uno non le capisce da solo, è meglio fermarsi e aspettare. Prima o poi arrivano. Al cuore.
Dice che Bill Fay è il Josef Zimmerman di "Io non sono come te". Quello vero...
“You can’t buy and sell the clouds…”
“Bill Fay’s first album in 41 years is astonishing” – MOJO
“The humble master of English song” – UNCUT
Don’t tell the river: Mick Turner live in Bologna /
Freakout Club, 14.9.14
L’altra volta che Mike Turner era venuto con i Dirty Three a Bologna facevano tanto di quel casino che avevano letteralmente coperto una delle scosse di assestamento del terremoto. Ma stasera c’è la chitarra, pedalini colorati e batteria. Niente barbuto, niente violino, niente casino.
In verità non c’è proprio un cane quando arriviamo. Locale deserto, tanto che dopo mezzora chiedo al tipo all’ingresso: dice che i ragazzi sono andati a casa a farsi una doccia e arrivano. Il giovane Kafka seduto sulla panca accanto alla mia mi guarda sconsolato. Gli vorrei dire che ci sono passato anche io, la vita è uno schifo, menomale che c’è la musica di Mick Turner. C’è pure il microfono, stasera! Si sarà messo a cantare?
“Ho sognato che morivo. Volteggiavo sopra le dune verso l’oceano, era mattina e la nebbia sull’acqua era così fitta”: si chiama così il dipinto di copertina, realizzato da lui stesso, come per gli album del terzetto, per il suo nuovo lavoro solista “Don’t tell the river” (Drag City). Fatto tutto da solo, col altri amici, senza né il barbuto, senza nemmeno il batterista “polpo” Jim White, l’unico al mondo capace di suonare tutti i tamburi e piatti contemporaneamente con due sole bacchette (e le sedici mani).
“Ciao, io sono Mick, lui è Mike”, fa lui quando sale sul palco. Non sembrano due che si sono fatti la doccia, e questo è tutto quello che dice al microfono.
Parte il primo giro, messo in loop con un pedalino bordò, su cui registra una seconda chitarra, e poi una terza, e dopo pochi minuti dall’inizio, sono sordo. Ma felice. Investito da un muro di suono doloroso ma vivo. Kafka, accanto a me, è impassibile.
Dietro le pelli non c’è il “polpo”, ma un giovane batterista in tenuta da rockstar che picchia duro e si inventa dei bei passaggi che tengono testa ai loop dell’amico Mick.
Le canzoni non sono canzoni, sono grumi di note che si addensano alla velocità della luce, e che poi esplodono, inquieti. È una tela su cui Mick (con Mike) imprime tutti i colori possibili che ha a disposizione, ne unisce i filamenti creando nuovi impasti sonori, si sporca le mani fino ai gomiti, fino a che tutto non resto sullo sfondo, un magma indistinto, su cui schizza gli ultimi tocchi di luce, grappoli di note che rischiarano la notte.
Poi spegne la loop-station, ringrazia, e se ne va.
Poi torna, dice che fa un pezzo dei Dirty Three da solo, non si capisce quale, mentre il batterista impomatato si intorta la barista, il giovane Kafka soffre in silenzio e un giovane Hemingway finisce di rollare una canna preparata tutto il concerto e la accende, come se niente fosse, mentre sfilano le note di sottofondo di questa notte obliqua. La vita è uno schifo, e non c’è tempo da perdere in canzonette, e Mick lo sa, per questo suona tutto il suonabile, tutte le note possibili, come un Coltrane sonico australiano e allampanato e se ne va lasciando metà del pubblico senza fiato (l’altra metà è uscita a fumare a metà concerto e non è più tornata). Grazie Mick (e Mike). Torna presto.
© vittorio bongiorno