Dice che questi C’Mon Tigre non si sa nemmeno chi sono, da dove vengono, forse uno da Ancona, l’altro chissà. Forse non sono manco italiani (meglio per loro), o forse no. Fuori c’è la neve, sporca di asfalto e di Bologna, dentro profumo di cannella, zenzero e sgombro affumicato. Bevo un pessimo gin e aspetto sul ciglio della strada per Rabat: quando la chitarra affilata entra sinuosa come un serpente si alza il lamento in lontananza, qualcosa si muove sotto la sabbia. Finalmente un po’ di calore, in questa valle desolata. “Ma chi sono questi? Le Tigre?”, mi chiede una tipa che fuma accanto a me. Tatiana. Faccio di sì con la testa, non mi distrarre cazzo. Ondeggio con la musica, come non mi capitava da anni: Federation Tunisienne De Football è un richiamo alla danza: al centro c’è questo sole che pulsa, e tutto intorno piccoli mondi che si attraggono e respingono. “Non si capisce niente con questo microfono”, fa Tatiana. “È questo il bello”, dico. Al centro del palco due muezzin: chitarra elettrica uno, Farfisa e microfono distorto l’altro, quello con la barbetta. È un invito lento, ancestrale, ossessivo. Per l’occasione i due beduini del deserto post rock hanno chiamato a raccolta una manciata di musicisti da tutto il Mediterraneo, con un carico di sassofoni, trombe, tromboni, vibrafoni e batterie (elettroniche e non). È una famiglia ambulante e mutaforma. Tatiana: “Ma che musica fanno?”. Bevo un sorso di gin schifoso e socchiudo gli occhi su Fan For A Twenty Years Old Human Being e non le rispondo. Trombe come proboscidi di elefanti effervescenti, e batterie elettroniche come cavalcate di gazzelle, e chitarre come lamiere arrugginite al sole. È un ritmo che monta, come l’emozione di un circo antico, con l’equilibrista zoppo che perde il tempo e cade dalla fune, e si rialza, e non sai se l’ha fatto apposta o è caduto per davvero.
Riprendono il tempo, cambiano ritmo, da più veloce a più lento, tutto in levare, ed entrano i fiati, ed è un colpo al cuore. “È tutto così circolare”, dice Tatiana, “ed è questo il bello”. Le faccio cenno di sì con gli occhi a fessura, anche se non l’ho mai vista prima. Vado a farmi un altro giro di pessimo gin, e quando torno sul palco è buio pesto, senza stelle. La luna fa luce sull’artista Danijel Zezelj, genio con coppola in testa e sangue sulle mani: apre la gabbia alla Tigre, che gronda colore acrilico sulla coda di A world of wonder ossessiva e ruggente.
C’mon Ti-gre… C’mon Ti-gre… C’mon Ti-gre…
È sussurrato a due voci, è un lamento, è una fanfara che annuncia a tutti i pellegrini che la tigre è libera, che da oggi è questo l’animale sacro, e non la si può più uccidere. Solo venerare, cullati dal suo andamento modale, quando passa sorniona per strada sotto il suo mantello bianco e nero.
C’mon Ti-gre… C’mon Ti-gre… C’mon Ti-gre…
È l’imprevisto inatteso, è un the con biscotti psichedelici, è tabacco aromatizzato al fuzztonic, è un invito alla danza dell’anima. “È questo il bello”, fa Tatiana, “Ma non mi chiamo Tatiana”. “Ah no?”, dico.
Sul commiato di Malta gli ottoni suonano languidi, e la chitarra vibra e dice che la carovana sta per partire per un lungo viaggio, ma che tornerà, con spezie fresche e odori d’oriente e occidente (mescolati in una lattina di olio di camion esausto). Abbiate cura della Tigre. Alla fine sono tutti felici. Anche io, nonostante il gin.
Foto © Angelica Muzzi